Dottissimi e profondi studi hanno, nell’ultimo secolo, percorso e analizzato il più contemporaneo dei linguaggi a cui la semiotica ha fatto riferimento: quello delle immagini in movimento. Molti, in primis Umberto Eco, hanno fornito interpretazioni approfondite e distinte dell’universo linguistico di cinema e televisione, del loro specifico e distinto modo di fornire significati attraverso le immagini, di come esistano codici specifici, destinatari classificabili e contesti multipli per ognuno dei formati e sotto-formati della comunicazione video.

Con una approssimazione sociologica colpevolmente sommaria, si può però ben affermare che i Millennials, cioè i nati tra gli anni ’80 e il 1995, siano, non solo in Italia, l’ultima vera generazione televisiva e cinematografica. I Centennials o Network Generation, cioè i loro fratelli minori nati dopo il 1995, secondo l’ISTAT (dati 2017) invece rinunciano in massa al cinema in sala appena entrati nella fascia anagrafica dei teenager e mostrano un crescente e quasi totale disinteresse per la TV (soprattutto se generalista) in favore di piattaforme video online.

Urge quindi riveder, o meglio arricchire, le teorie semiotiche sui significati e sulla struttura delle “frasi” audiovisive, poiché mai come ora la differenza di canale e di strumenti di visione (dalla sala cinematografica e dal televisore allo smartphone e a ciò che di sicuramente inatteso seguirà), ha modificato profondamente la struttura del video come mezzo di comunicazione.

In primis cambia l’inquadratura, l’elemento di segno minimo della frase filmica: abituati alla teoria visiva cara a Orson Welles o a Sergio Leone, in cui grandi spazi evocativi si alternano a drammatici primissimi piani e dove la profondità di campo crea più piani di fuoco creatori di spazi tridimensionali di azione, oggi i nostri occhi hanno più consuetudine verso immagini fruite su supporti più piccoli e ad altissima definizione, dove tendono ad essere meno facili all’emozione, a concentrarsi su uno spazio scenico più angusto e a non indulgere sull’espressionismo psicologico in favore dell’azione scandita dal montaggio.

Proprio il montaggio, e cioè il modo in cui si formano le frasi audiovisive come sequenze di inquadrature, è completamente cambiato. Oggi è di rigore un ritmo velocissimo, in un susseguirsi di azioni che devono essere contenute in tempi brevi, in poche inquadrature, in cui viene concentrato tutto il messaggio verbale ed emotivo, sempre e comunque con l’urgenza di non superare una fatidica soglia che qualcuno stabilisce in 7 minuti (l’attenzione media che forniamo veramente a qualsiasi cosa, pare) e altri addirittura in molto meno.

Assurdamente la pubblicità televisiva, che di questa giustapposizione di segni in frasi veloci e brevi è stata antesignana, invece di trionfare sprofonda in una crisi senza se e senza ma, grazie un meccanismo che con un anglicismo devastante chiamiamo “Adv Blindness” (cecità naturale verso la pubblicità) che fa impazzire tutti gli uomini di marketing contemporanei. Il cervello dei giovani fruitori ha geneticamente ottimizzato una nuova funzione post-darwiniana dell’evoluzione: la totale indifferenza a ciò che disturba la nostra visione interessata, una specie di riflesso condizionato di stolidità autoindotta (e benefica, talvolta) che cancella la nostra memoria breve facendoci dimenticare gli spot che stiamo vedendo già nel momento in cui li vediamo.

Ma in questo teatro in cui il sipario si apre e si chiude in continuazione, con palcoscenici sempre più piccoli e attori sempre più fugaci, in realtà rimane qualcosa per far si che il segno, in fin dei conti l’immagine, restituisca ancora un sogno e cioè un significato, una interpretazione, che smuova emotivamente lo spettatore, che per inciso, non è più spettatore, ma come anticipato poche righe sopra “fruitore” molto più interattivo di prima.

Alcune soluzioni sembrano esistere: in primis le serie televisive, che altro non sono che film ad alto impatto drammatico, super-lungometraggi spezzati in episodi più corti strettamente legati tra loro, dove scrittura, regia, montaggio, colonna sonora, concorrono a cercare di coinvolgere, al limite dell’intossicazione, lo spettatore in tempi più brevi (ogni puntata dura circa un terzo di un comune film), ma per più puntate. Alcuni sono capolavori assoluti, multipiattaforma, transmediali, creatori di ambienti di godimento individuale perfetti per i gusti delle nuove generazioni, dove l’esperienza immersiva (video, social, letteraria, musicale) è completa. La modernità del montaggio e della costruzione filmica fa il resto, convincendo molto spesso anche i fan più attempati in cerca di un nuovo “Tenente Colombo” raccontato in lingua contemporanea.

Un altro esempio è la “cinematografizzazione” dei videogames, ormai storie interattive degne di una regia di grande livello, dove la perfezione dell’immagine, il suo montaggio in diretta realizzato dall’utente stesso attraverso i suoi movimenti e i suoi focus di attenzione, la fascinazione di storie complesse e intriganti, rendono l’esperienza di gioco una “fluida visione profonda” esattamente pari, se non superiore, a quella della sala cinematografica buia.

E i temi e i messaggi e i significati? Non mancano, così come non mancano i prodotti di facile consumo e di poetica più spicci, d’altra parte anche Antonioni girava i suoi capolavori mentre nei cinema di quartiere impazzavano Ciccio e Franco. Il “segno” era uguale, ma il “sogno” piuttosto diverso. Ogni epoca ha i suoi profeti, i suoi artisti, ma anche i suoi artigiani del divertimento e i creatori di facezie, più o meno volgari, che trovano spazio nel nostro tempo libero. Tra uno youtuber di provincia che realizza sketch misurati sull’utenza poco più che prescolare (magari con successo contato in milioni di visualizzazioni) e la celebrata serie spagnola “La Casa de Papel”, dove troviamo il massimo della cultura registica e drammaturgica contemporanea, si apre un oceano semiotico fatto di segni e di sogni innovativi dove non manca certo il materiale di studio, tenendo presente sempre che il rifiuto delle nuove forme linguistiche, ritenute erroneamente generazionali o di basso livello intellettuale, non fermerà, di certo, il loro successo e la loro diffusione.

Immagini e movimento: il segno del sogno contemporaneo – di Andrea W. Castellanza

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