Il fumetto Disney vive tra due estremi: da una parte, la necessità di essere fedeli alla tradizione, con un linguaggio colto, fatto di termini a volte desueti ma sempre eleganti, educando un pubblico di tutte le età. Dall’altra, la voglia di innovare, con neologismi, gag, ironie, portando a Topolinia e Paperopoli la tecnologia e i cambiamenti della società: tra Dante e… Papernet, insomma. Un excursus sulla lingua di Topolino, dagli inizi di Cesare Pavese e Guido Martina agli autori della “scuola italiana”, centro mondiale della produzione di fumetto Disney.

Di ROBERTO GAGNOR, sceneggiatore Disney

Come “parla”, Topolino?

Pur essendo essenzialmente una giustapposizione di immagini in sequenza (citando Scott Mc Cloud e il suo Capire il Fumetto), nel fumetto la parola è imprescindibile dall’immagine, e l’effetto di entrambe crea la narrazione. Il fumetto è quindi anche una palestra di innovazione linguistica. I fumetti vivono di gerghi, parole, frasi tutte loro: una loro lingua, insomma, che in quanto tale è un modo di pensare e crea un mondo. Nel caso di Topolino, poi, la lingua del giornale è un’intera filosofia editoriale e narrativa.

Topolino è un esempio perfetto di cultura di massa: vive tra l’ex cosiddetto “basso” (non è necessario ripetere e confutare ulteriormente i luoghi comuni ormai superati sul fumetto come “roba da bambini”: i lettori di Topolino sono adulti E bambini) e l’ex cosiddetto “alto” (i suoi sceneggiatori citano Breaking Bad come I Promessi Sposi, e i suoi disegnatori vivono di influenze artistiche che vanno dal manga di Sciarrone all’art nouveau di Mottura passando per il fumetto franco-belga di Cavazzano). Un mix che parte, però, da un linguaggio diverso dalla norma.

Topolino, infatti, ha sempre educato a un linguaggio più erudito, elaborato, spesso anche desueto. All’inizio, questo linguaggio derivava dalle grandi teste che hanno creato la scuola dei Disney italiani, come Guido Martina, che non veniva definito “il professore” per caso e che nell’Inferno di Topolino (1949-50) parodiava Dante in endecasillabi. Ora è una tradizione, ripresa anche da pagine Facebook come Imparare la Lingua Italiana con i Fumetti Disney, che cita vignette dalle storie Disney italiane che usano termini difficili, arcaici o poco noti, linkandoli alle pagine della Treccani online che spiegano tali termini. Un tributo all’intento didattico e artistico del settimanale, che in effetti usa una lingua più “difficile” rispetto ad altri fumetti e rispetto al livello medio della popolazione: un italiano fatto anche di termini desueti, complicati, settoriali. In cui può trovare posto la parodia, l’insulto arcaico, il gioco gergale e persino la contaminazione col dialetto, quando gli sceneggiatori si divertono a usare i propri dialetti per farne lingue aliene trascritte foneticamente o nella fonetica anglosassone, con effetti comici esilaranti.

Grazie alla professionalità degli autori, sceneggiatori, disegnatori e redattori italiani, però, la lingua di Topolino si adegua anche al periodo storico e all’attualità, pur senza esagerare. A volte, per i giovani sceneggiatori che si avvicinano al mondo Disney, la cosa più difficile è proprio capire come “parlano” i personaggi: o li congelano in una maniera espressiva che magari ricordano dalle storie del passato, o li contaminano troppo con la lingua del 2018, stridendo con la tradizione Disney. Invece Topolino deve essere sempre nuovo, ma inserito in un mondo ben preciso: quello disneyano.

Tutto questo, per un pubblico che nominalmente ha un target dagli 8 ai 10 anni, ma che di fatto conta tantissimi adulti. Lettori colti, anzi: più colti della media, che leggono libri e fumetti, guardano i Simpson e sanno usare un iPad e la Playstation. Un pubblico molto più colto di un tempo, sia in generale che dal punto di vista narrativo. Quindi servono storie complesse ma accessibili. Con un linguaggio comprensibile, ma non banale. Insomma, servono più livelli di lettura.

Ma come nasce una storia di Topolino? Molto semplicemente, da un’idea.

Un’idea che deve potersi raccontare in fretta e bene. Semplice, ma non banale. Deve essere un buon pitch, prendendo un termine dal linguaggio cinematografico. E naturalmente deve rispettare i personaggi e avere un suo chiaro svolgimento. Spesso serve cercare nelle pieghe del mondo Disney, chiedersi cosa NON è stato ancora raccontato.

Poi si scrive un soggetto in una o due pagine, spiegando i vari snodi della storia in paragrafi dedicati, per fare capire le gag, ma soprattutto il flusso della storia. Il soggetto va poi a un editor della redazione, che decide se approvarlo o meno.  Se per l’editor la storia funziona, si va a sceneggiare. Prima, però, come insegna un importantissimo autore Disney, Massimo Marconi, si prepara un layout: in pratica, si disegna tutta la storia, in grezzi disegnini che però sono fondamentali, per lo sceneggiatore, perché servono a capire gli spazi della storia: come usare le vignette, come gestire i vari momenti della storia e il suo ritmo. 

Quando il layout funziona, si scrive la sceneggiatura: una descrizione, tavola (o pagina) dopo tavola e vignetta per vignetta, delle varie azioni, aggiungendo anche inquadrature e dialoghi.

Tutto questo, però, rispettando i personaggi Disney: comprendendone l’originalità, ma anche l’universalità. I nostri personaggi non hanno un’appartenenza etnica, religiosa o culturale. Non sono di destra o di sinistra. E anche se scherzano sull’attualità̀, vanno a toccare quanto c’è di universale e di umano, in tutti noi. Oggi come ieri o domani. Al netto di qualunque opinione o religione. Forse è questo che li rende tanto forti. Classici, citando Italo Calvino: personaggi che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire.

BIBLIOGRAFIA

https://www.fumettologica.it/2014/02/come-si-scrive-una-storia-disney-spiegato-da-roberto-gagnor/

https://www.ilpost.it/robertogagnor/2012/04/27/donnicciole-sbigottite/

https://www.ilfoglio.it/cultura/2019/03/23/news/ben-detto-topolino-244908/?paywall_canRead=true&fbclid=IwAR3q1Nz4yipSgRh10-mA4B2UzsmHWVvgOxMVRkIWd3RMIfAFP8bsYwL7ang

Donnicciole sbigottite e plutocratica sicumera: Disney e l’italiano, tra tradizioni colte e invenzioni papere – di Roberto Gagnor

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